Le pietre che si sciolgono in un arancione tenue, "aranciu cuddari " (arancione tramontare), mutevole di minuto in minuto. L'erba, che durante il giorno si trasforma morendo, rinasce vuota e gialla... più gialla.
Ogni cosa ai miei sensi m'appartiene. Chiudo gli occhi: Sicilia.
Un piccolo saggio per comprendersi.
Gesualdo Bufalino, L'isola Plurale, da Cere Perse.
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Dicono gli atlanti che la Sicilia è un'isola e sarà vero, gli atlanti
sono libri d'onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa
che al concetto d'isola corrisponde solitamente un grumo compatto di
razza e costumi, mentre qui tutto è mischiato, cangiante,
contraddittorio, come nel più composito dei continenti. Vero è che le
Sicilie sono tante, non finirò di contarle. Vi è la Sicilia verde del
carrubbo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella
bionda del miele, quella purpurea della lava.
Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una
Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della
violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che
si estenua nell'angoscia della roba, una che recita la vita come un
copione di carnevale; una, infine, che si sporge da un crinale di vento
in un accesso di abbagliato delirio...
Tante Sicilie, perché? Perché la Sicilia ha avuto la sorte ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d'identità, né so se sia un bene o sia un male. Certo per chi ci è nato dura poco l'allegria di sentirsi seduto sull'ombelico del mondo, subentra presto la sofferenza di non sapere districare fra mille curve e intrecci di sangue il filo del proprio destino.
Tante Sicilie, perché? Perché la Sicilia ha avuto la sorte ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d'identità, né so se sia un bene o sia un male. Certo per chi ci è nato dura poco l'allegria di sentirsi seduto sull'ombelico del mondo, subentra presto la sofferenza di non sapere districare fra mille curve e intrecci di sangue il filo del proprio destino.
Capire la Sicilia significa dunque per un siciliano capire se stesso,
assolversi o condannarsi. Ma significa, insieme, definire il dissidio
fondamentale che ci travaglia, l'oscillazione fra claustrofobia e
claustrofilia, fra odio e amor di clausura, secondo che ci tenti
l'espatrio o ci lusinghi l'intimità di una tana, la seduzione di vivere
la vita con un vizio solitario. L'insularità, voglio dire, non è una
segregazione solo geografica, ma se ne porta dietro altre: della
provincia, della famiglia, della stanza, del proprio cuore. Da qui il
nostro orgoglio, la diffidenza, il pudore; e il senso di essere diversi.
Diversi dall'invasore (che è più alto: il normanno non si può prenderlo a pugni, si può solo colpirlo al ventre con un trincetto...); diversi dall'amico che viene a trovarci ma parla una lingua nemica; diversi dagli altri, e diversi anche noi, l'uno dall'altro, e ciascuno da se stesso. Ogni siciliano è, di fatti, una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l'isola tutta è una mischia di lutto e di luce. Dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte. Altrove la morte può forse giustificarsi come l'esito naturale d'ogni processo biologico; qui appare come uno scandalo, un'invidia degli dei.
Da questa soperchieria del morire prende corpo il pessimismo isolano, e con esso il fasto funebre dei riti e delle parole; da qui nascono i sapori cupi di tossico che lascia in bocca l'amore. Si tratta di un pessimismo della ragione, al quale quasi sempre s'accompagna un pessimismo della volontà. Evidentemente la nostra ragione non è quella di Cartesio, ma quella di Gorgia, di Empedocle, di Pirandello. Sempre in bilico tra mito e sofisma, tra calcolo e demenza; sempre pronta a ribaltarsi nel suo contrario, allo stesso modo di un immagine che si rifletta rovesciata nell'ironia di uno specchio.
Diversi dall'invasore (che è più alto: il normanno non si può prenderlo a pugni, si può solo colpirlo al ventre con un trincetto...); diversi dall'amico che viene a trovarci ma parla una lingua nemica; diversi dagli altri, e diversi anche noi, l'uno dall'altro, e ciascuno da se stesso. Ogni siciliano è, di fatti, una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l'isola tutta è una mischia di lutto e di luce. Dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte. Altrove la morte può forse giustificarsi come l'esito naturale d'ogni processo biologico; qui appare come uno scandalo, un'invidia degli dei.
Da questa soperchieria del morire prende corpo il pessimismo isolano, e con esso il fasto funebre dei riti e delle parole; da qui nascono i sapori cupi di tossico che lascia in bocca l'amore. Si tratta di un pessimismo della ragione, al quale quasi sempre s'accompagna un pessimismo della volontà. Evidentemente la nostra ragione non è quella di Cartesio, ma quella di Gorgia, di Empedocle, di Pirandello. Sempre in bilico tra mito e sofisma, tra calcolo e demenza; sempre pronta a ribaltarsi nel suo contrario, allo stesso modo di un immagine che si rifletta rovesciata nell'ironia di uno specchio.
Il risultato di tutto questo, quando dall'isola non si riesce o non si
voglia fuggire, è un'enfatica solitudine. Si ha un bel dire – io per
primo – che la Sicilia si avvia a diventare Italia (se non è più vero,
come qualche savio sostiene, il contrario). Per ora l'isola continua ad
arricciarsi sul mare come un istrice, coi suoi vini truci, le confetture
soavi, i gelsomini d'Arabia, i coltelli, le lupare. Inventandosi i
giorni come momenti di perpetuo teatro, farsa, tragedia o Grand-Guignol.
Ogni occasione è buona, dal comizio alla partita di calcio, dalla
guerra di santi alla briscola in un caffè.
Fino a quella variante perversa della liturgia scenica che è la mafia, la quale fa le sue mille maschere, possiede anche questa: di alleanza simbolica e fraternità rituale, nutrita di tenebra e nello stesso tempo inetta a sopravvivere senza le luci del palcoscenico.
Fino a quella variante perversa della liturgia scenica che è la mafia, la quale fa le sue mille maschere, possiede anche questa: di alleanza simbolica e fraternità rituale, nutrita di tenebra e nello stesso tempo inetta a sopravvivere senza le luci del palcoscenico.
È
da questa dimensione tetrale del vivere che ci deriva, altresì, la
suscettibilità ai fischi, agli applausi, all'opinione degli altri (il
terribile " uocchiu d'e gghenti", l'occhio della gente); e la vergogna
dell'onore perduto; e la vergogna di ammalarsi...
Non è tutto, vi sono altre Sicilie, non finirò mai di contarle. »
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